È NECESSARIO UN PIANO B PER RISOLLEVARE LE SORTI DEL NOSTRO PAESE

Con il “Decreto Rilancio”, che dovrebbe valere 55 mld, si ha l’impressione che l’Italia abbia raschiato il “fondo del barile” della copertura finanziaria, pur dovendo verificare se ciò che è promesso si trasformerà in fatti (contributi a fondo perduto).

Al netto delle garanzie del precedente “Decreto Liquidità” sull’indebitamento dell’imprese (anche quello da verificare nella misura), i fondi stanziati appaiono del tutto insufficienti per garantire:

1. Cassa integrazione per i lavoratori subordinati;

2. Bonus 600/800 euro per gli autonomi;

3. Reddito d’emergenza per i soggetti in difficoltà esclusi dai punti 1 e 2;

4. Contributi alle imprese, che per ripartire, non possano o non vogliano ulteriormente indebitarsi;

5. Rafforzamento del SSN.

Quindi ci si è approcciati in un’attesa fideistica degli stanziamenti anticrisi della Ue, posto che i due strumenti a oggi operativi sono già finalizzati in quanto al QUANTITATIVE EASING per il rinnovo dei titoli del debito pubblico in scadenza; quanto al MES per il rafforzamento della sanità (per quanto l’eventuale adesione italiana, nei fatti a oggi non certa, libererebbe risorse da destinare ad altre voci di spesa).

Nel corso di una recentissima conferenza stampa franco-tedesca Angela Merkel annuncia: “500 miliardi per le regioni più colpite”, parlando di un fondo “limitato nel tempo” ma indispensabile per garantire la coesione dell’Unione europea non escludendo che la situazione imponga “una modifica dei Trattati”. La chiosa di Emmanuel Macron: “La crisi inedita impone una risposta europea. L’Europa non ha saputo reagire bene all’inizio, ci sono stati riflessi nazionalisti. Poi vanno riconosciuti atti notevoli, una solidarietà che ha salvato vite”. Sul piano sanitario, stock comuni di maschere e test, metodi comuni per individuare e contare i casi. Sul piano budgetario, fondo di rilancio di 500 miliardi di euro; proponiamo per la prima volta di decidere insieme un debito comune sui mercati ed usare i 500 miliardi per aiutare le regioni più colpite.

Anche in questo caso, siamo agli annunci!

In concreto la Presidente Ursula von der Leyen sta portando avanti un vero e proprio lavoro segreto "lavoro nel bunker" (per quanto non sia molto credibile che non abbia contatti con Berlino), nella sostanza pensando di concedere sovvenzioni a fondo perduto in cambio di riforme strutturali. Il piano, quello del Recovery Fund, è però slittato al 27 maggio e, stando ai vari passaggi obbligatori, non potrà concedere risorse ai paesi in emergenza Coronavirus prima di autunno, così la von der Leyen sta pensando a tutto, anche alle riforme strutturali da concedere in cambio ai paesi “falchi”, Olanda, Austria, Finlandia, etc.

Tralasciando il dimezzamento dell’importo (per gli eurobond si ipotizzavano 1.000 miliardi) una cosa appare chiara, di prestiti condivisi o contributi incondizionati non se ne parla.

Che i nostrani sovranisti se ne facciano una ragione, pur non volendo ipotizzare troike o riforme da “macelleria sociale”, la condizione minima è la finalità degli impieghi all’emergenza Coronavirus.

Quindi non potranno essere utilizzati per le spese correnti, anche se il previsto calo delle entrate fiscali creasse problemi di copertura. Quindi (eventuali) finanziamenti e contributi comunitari, ad esempio, non potranno essere utilizzati:

a) Per pagare le pensioni;

b) Per le retribuzioni dei dipendenti pubblici, ad esclusione (forse) dei sanitari;

c) Per finanziare quota 100;

d) Per pagare il reddito di cittadinanza;

e) Per la manutenzione delle infrastrutture.

A fronte di questo scenario è incredibile che chi ci governa (ma anche chi al governo si oppone) da oltre un mese si “gingilli” con MES si o MES no, senza alcuna ipotesi di piano B.

L’unico piano B degno di questo nome è stato ipotizzato da Giulio Tremonti, IL PRESTITO PATRIOTICO.

Ora, dato che è il mio terzo intervento che lo cita, sento il bisogno di precisare che (per estrazione e cultura) dei tre Tremonti (scusate la cacofonia), l’economista, il politico e lo studioso avevo apprezzato solo quest’ultimo. Oggi mi sento, seppur con interna sofferenza, di dover apprezzare lo statista. Forse l’unico che abbiamo!

Il piano di Tremonti per la “difesa e ricostruzione nazionale”

La proposta avanzata dall’ex ministro Giulio Tremonti, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, sembra possedere più progettualità e più brama di sovranità rispetto al placebo ipotizzato da Draghi. Seppur con qualche perplessità legata ai suoi destinatari.

Si parla tanto dell’intervento di Draghi e poco di quello di Tremonti apparso sul Corriere lunedì 30 marzo. Il primo oscura il secondo per la caratura da ex Presidente della Bce, ma anche per il “salto mortale carpiato” di posizioni effettuato. Tremonti, invece, ha sempre avuto una sua coerenza rispettabile. Cosa che dimostra anche nello scritto in questione. Questi afferma che anche con l’ipotesi Draghi i problemi per l’Italia non cesserebbero a causa dell’elevato debito e dell’ormai permanente stagnazione ed ora recessione. C’è infatti il problema delle forche caudine rappresentato dal mercato finanziario internazionale.

In questo contesto la proposta Tremonti prende l’avvio “da uno dei giacimenti di risparmio del mondo”. A partire da questo bisognerebbe lanciare “un piano di difesa e ricostruzione nazionale” utilizzando il giacimento sopra ricordato con ”emissioni di titoli a lunga scadenza, con rendimenti moderati ma sicuri e fissi.. esenti da ogni tassa presente e futura” e coinvolgendo in questa operazione anche banche, investimenti e fondi italiani all’estero.

Tecnicamente si potrebbe fare come la Germania opera per l’emissione di titoli pubblici: “Superando (di fatto) il divorzio Tesoro-Banca d’Italia introdotto nel 1981 e ormai superato”. Altra importante affermazione.

Tremonti inquadra la proposta nel contesto: “Nel tempo presente ed in questo momento il tempo è strategico: oggi non si può delineare una via di fuga il passaggio dall’euro alla lira” anche se il nostro non esclude l’uscita. L’ipotesi, tuttavia, porta alla nazionalizzazione della politica monetaria e meglio si inquadra in un piano di uscita dall’euro.

Al fine di gestire la sua proposta, (qui cominciano le dolenti note), servirebbe, scrive Tremonti, uno Stato che faccia lo Stato e uno settore privato che funzioni una volta garantito il massimo di libertà. Come si vede, anche proposte concrete, anche se non affatto nuove, cozzano con alcuni limiti storici del nostro Paese: uno Stato-non-Stato al servizio degli interessi frammentati del sistema produttivo. Ed un settore produttivo che certo è oberato dalla burocrazia ma affatto dedito al benessere comune.

Ciò detto, mi chiedo a quali forze politiche rivolga la sua proposta. Non sono certo che ce ne sia qualcuna.

Tuttavia, anche nella proposta di Tremonti non compaiono i lavoratori, il loro ruolo innanzitutto, le loro condizioni. Ed anche in questo caso il richiamo giusto ad “una proiezione patriottica, comunitaria, sociale, il sentimento di essere parte di una stessa patria … perché ancora una volta è arrivato il momento dell’unum necessarium” sa di stantio. Ciò non annulla la pregnanza della proposta in se.

Fare appello alla convenienza e allo spirito patriottico del popolo offrendogli uno strumento ad hoc in cui investire, come avvenne nel Dopoguerra. Può funzionare. Ecco come:

La proposta di Tremonti, formulata sulle colonne del Corriere della Sera del 30 marzo scorso, ha, come cercherò di mostrare, realistiche basi economiche. Speriamo che abbia anche le necessarie basi morali.

È vero infatti che l’Italia ha un debito pubblico elevato ma ha per contro un debito privato modesto e una notevole ricchezza.

a) Il debito delle famiglie italiane sul Pil è il più basso dell’eurozona.

b) Anche il debito delle imprese è tra i più bassi.

c) È in effetti nel debito pubblico che siamo messi male.

Bene, sommando i tre debiti, quello delle famiglie, delle imprese e pubblico, arriviamo grosso modo al 240% del Pil. La virtuosa Olanda, che tanto ci massacra, ha il 326,3%, la Finlandia che fa altrettanto, il 237,1%, grosso modo come noi. L’Austria il 211,2%, la Francia il 299,6%. La media europea è il 247%.

Ora, non sono così semplicista dal ritenere che il debito pubblico è uguale al debito privato. Il debito pubblico incide sullo Stato. E lo Stato non è un soggetto qualunque. È il luogo in cui la nazione si organizza e si difende. Un’impresa anche molto grande può fallire senza che il tutto venga compromesso. Se fallisce lo Stato è un disastro per tutti.

Quindi “convento povero frati ricchi” è molto pericoloso. È indice di un malessere, di uno squilibrio che nel lungo periodo porta alla rovina del convento e alla fine dell’ordine religioso.

In Italia il rapporto tra debito pubblico e Pil inizia a crescere all’inizio degli anni Ottanta, dopo lo storico divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro voluto dalla buonanima di Beniamino Andreatta, si riduce nella fase preparatoria all’euro, quando ancora comunque l’Italia aveva una sua sovranità monetaria, si muove lateralmente (cioè non cresce e né si riduce) nella prima fase dell’euro ed esplode dopo la crisi del 2007. E non è frutto della politica spendacciona dello Stato italiano, bensì della lunga stagnazione del Pil.

Bene, se questo è il lato passivo del bilancio italiano, all’attivo cosa troviamo?

Trascurando il valore (pur molto rilevante) del patrimonio pubblico e delle società e fermandoci a considerare solo la ricchezza delle famiglie, risulta che alla fine del 2017 gli italiani detenevano attività reali per 6,3 triliardi, attività finanziarie per 4,3 triliardi, con un saldo netto di 10,6 triliardi, cioè qualcosa come 5 volte il Pil di un anno. Veniamo ora alla proposta del professor Tremonti.

Tremonti dice, in sostanza, è inutile andare a pietire aiuti dall’Europa. “Chi fa da sé fa per tre”. L’Italia ha l’enorme bacino di ricchezza delle sue famiglie a cui attingere. E può fare in due modi.

Come dice qualche sacerdote dell’austerità, non a caso riprendendo i recenti “consigli” del capo economista della Bundesbank Karsten Wendorff, mettendo una bella imposta patrimoniale. Ma ciò, dice Tremonti, dirotterebbe “verso lo Stato capitali attualmente depositati o investiti in banche e assicurazioni, le farebbe fallire, così creando un disastro ancora peggiore di quello che si vorrebbe evitare”. E dico io, avrebbe un enorme effetto depressivo sullo spirito nazionale, allargando il solco che già c’è tra popolo che lavora e produce, specie del Nord, e ceto politico, facendolo diventare un baratro e innescando pericolose spinte autoritarie magari eterodirette (ci vorrà l’uomo forte, infatti, per imporre una misura del genere).

Il secondo modo è fare appello alla convenienza e allo spirito patriottico del popolo offrendogli uno strumento ad hoc in cui investire. Uno strumento di debito per la difesa e la ricostruzione nazionale che abbia una lunghissima scadenza, sia esente da imposte dirette e di successione, abbia un rendimento decente e sia garantito dai beni pubblici.

Tremonti ricorda il piano fatto nel 1948, nella fase della ricostruzione post-bellica, e voluto da tutta la dirigenza politica italiana, Togliatti compreso, di cui cita la bella frase: “Il prestito darà lavoro agli operai. Gli operai ricostruiranno l’Italia”.

Se il quadro economico in cui si colloca la proposta di Tremonti, pur con la difficoltà di restare nella moneta europea, la fa ritenere fattibile e di gran lunga preferibile alla violenza autoritaria della patrimoniale, resta da esaminare un altro quadro, quello politico, (io direi di più, quello morale).

Fare debiti per farli non ha nessun senso. Avrebbero ragione i tedeschi…

I debiti vanno fatti per avere le risorse per “ricostruire l’Italia”. Vale a dire per un gigantesco piano di opere pubbliche di cui il Paese ha disperatamente bisogno e per salvare il nostro sistema produttivo dalle perdite provocate dalla gelata del Coronavirus, mettendolo poi nelle condizioni di esprimere il suo potenziale nella competizione internazionale, favorendolo senza indulgere a un liberismo selvaggio e miope.

Il che richiede una classe politica che abbia la forza, la statura, la rettitudine, l’intelligenza di guidare il popolo. Questa classe dirigente esiste davvero?

A guardare al passato si direbbe di no. Trenta anni di devastazione civile, di moralismo violento, di dossieraggi sistematici, dopo la stagione di Mani Pulite, non sono passati invano. Il venir meno dei partiti, dei corpi intermedi, l’invasività dei social media, l’affermazione degli arcobalenici diritti e la negazione dello statuto dei doveri, dei legami, lo svaporarsi della diversità culturale della Chiesa, non sono passati invano.

Può questa pandemia essere la causa di una resurrezione civile e morale della nostra Italia?

Fonte: articolo di Ugo Boghetta del 2/4/20 e di Stefano Morri del 5/4/20

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