I DATI DIVENTANO MONETA

Possono le informazioni relative alla vita di una persona, normalmente coperte da privacy, costituire merce di scambio o, per dirla in parole economiche, una vera e propria “moneta”?

Quando un’applicazione chiedeva di utilizzare i nostri dati per poter usufruire dei suoi servizi, sembrava quasi scontato dover accettare, anche se tutte le richieste non essenziali all’esecuzione del contratto erano illegittime, e sono tutt’ora, come sono illegittime, e ugualmente sono tutt’ora, le cessioni di tali dati a terzi.

Alcuni di questi concetti però sono stati ormai superati dal decreto legislativo del 29 ottobre 2021, che ha aggiunto nuovi articoli (dal 135-octies al 135-vicies ter) al codice del consumo (dlgs n. 206 del 2005) e, nel recepire la direttiva europea, codifica quello che già avviene tutti i giorni sulla rete internet, e cioè lo scambio di beni (digitali) contro dati personali. Da un punto di vista pratico vengono introdotti nel codice del consumo una serie di istituti a tutela della concorrenza, attraverso una serie di garanzie per i consumatori, tra cui la conformità del bene al contratto e le prescrizioni a riguardo di rimedi in caso di difetto di conformità o di mancata fornitura, e sulla verifica dell’effettivo valore dei dati, quale unità di misura per l'acquisto di beni e servizi. Altresì viene introdotto dal decreto legislativo in commento il diritto alla sicurezza del servizio e del bene digitale, ovvero che il consumatore ha diritto di avere un bene che non lo esponga a rischi informatici, virus, malware e così via. Così è reso obbligatorio il fatto che chi vende un contenuto o servizio digitale dovrà preoccuparsi della tutela della sicurezza del consumatore, tutela che molto spesso coincide con la tutela della sua privacy.

Questo decreto, che di fatto va a modificare il codice della privacy ed il Regolamento Europeo 679/2016 legittimando la cessione delle informazioni personali in cambio di un servizio digitale, è diretta conseguenza della predominanza del mercato Internet per gli scambi commerciali, dove le imprese vendono beni e servizi ai clienti che ricambiano pagando con due monete diverse, ovvero il tradizionale denaro e con i dati personali.

Tutte le aziende che lavorano nel settore digitale hanno un fattore in comune: raccolgono i dati personali dell'utente tramite diversi algoritmi e altre tecnologie e li utilizzano per ottenere un vantaggio competitivo sulla concorrenza. Gli innumerevoli dati costantemente generati dalla comunicazione interattiva e dai molteplici canali digitali, raccolti da diverse fonti elaborabili ed esaminabili attraverso tecnologie di analisi, conosciuti oggi con il termine di Big Data, consentono di svolgere analisi e predizioni su questi dati in tutti i campi: dal marketing alla politica, dalla sanità alla pubblica sicurezza, con obiettivi di controllo, tracciamento, profilazione, etc.

Ovviamente ogni compagnia sfrutta tali strumenti in maniera differente e in base alle informazioni che intende raccogliere per finalizzare la vendita dei propri prodotti/servizi o per diffondere un pensiero o un’idea. Conoscere il proprio utente, il fruitore dello spazio web consente un vantaggio competitivo importante, non solo da un punto di vista commerciale ma anche di controllo, nei casi più estremi.

Le aziende più strutturate sfruttano i dati personali per trarne benefici e crescita in termini di affari ed è quindi indubbio come la fonte di maggior valore oggi siano le informazioni. 

Questo tipo di mercato fa affidamento sull’inconsapevolezza dell’utente, sulla leggerezza con la quale espone le sue informazioni personali, sull’entusiasmo con cui le fa circolare insieme a coloro che lo circondano, mentre è diventato urgente elaborare una visione complessiva, trasversale, critica, e bisogna insistere sulle pratiche di autoformazione e autodifesa digitale”.

Una citazione molto significativa (dal libro “La Rete è libera e democratica. Falso!”, Ippolita, 2014) che definisce molto bene la “disattenzione” con cui ognuno oggi utilizza i propri dati, in maniera automatica come una specie di bancomat che non si esaurisce. 

Se il confronto è tra moneta e dati, è implicito pensare come la leggerezza con cui si rilasciano i dati è proporzionale alla velocità con cui se ne creano di nuovi, in maniera inversamente proporzionale al potere del denaro, che diminuisce con il suo utilizzo.

Le nostre informazioni sono la nuova moneta dell’era digitale e in molti casi hanno un valore superiore rispetto a quello prettamente economico quantificabile in moneta corrente. Le aziende lo sanno da alcuni anni, gli utenti no. 

È comunque indubbio che questa disposizione comporterà la nascita di nuove questioni, altrettanto delicate, a proposito del fatto se tutti i tipi di dati possano essere usati o se si debbano escludere i dati sensibili e quelli particolari, se sui dati consegnati in pagamento si possano esercitare i diritti previsti dal GDPR e quali, e se soprattutto, i nostri dati avranno tutti lo stesso potere economico o se saremo targhettizzati sulla qualità degli stessi.

Non a caso a maggio di quest’anno è stato presentato Data Pro Quo, il primo distributore automatico dove i prodotti sono pagati con i dati dei clienti. Frutto della collaborazione tra Shackleton, Accenture e Evoca Group, consente l’acquisto dei prodotti solo previo rilascio di alcune informazioni, usate al posto della moneta contante, che non è possibile utilizzare. Data Pro Quo (letteralmente qualcosa al posto di qualcos'altro) propone una gamma di 55 prodotti diversi: 32 tra cibi e bevande, 13 articoli di cancelleria e 10 articoli elettronici. I prodotti sono distribuiti in tre fasce di prezzo (A, B e C), ciascuno associato a un proprio set di domande. In pratica è possibile acquistare un frullato con l’indirizzo email, uno spuntino rispondendo a qualche domanda di lavoro e persino degli AirPod compilando un questionario.