SE FAI DEBITO PER MONOPATTINI E BICILETTE CONFONDI IL DRAMMA CON LA COMICA

“Se fai debito per monopattini e biciclette confondi il dramma con la comica. E non è finita, perché nella bozza della prossima manovra c’è un’impressionante collezione di bonus e marchette.”

Sono parole del prof. GIULIO TREMONTI, tratte da un’intervista rilasciata al quotidiano la Verità, l'ex Ministro dell'Economia sostiene che l’esecutivo stia operando un'enorme estensione del deficit e del debito pubblico, “ristorando” appunto, all’infinito.

Pur condividendo le perplessità di Tremonti sull’utilizzo delle risorse che ci sono e ci saranno, penso che in questa fase e nell’immediato futuro, non ci siano valide alternative all’estensione del deficit né a una distribuzione di ristori ai settori più penalizzati dall’andamento della pandemia.

Ma ciò che veramente trovo incomprensibile è “l’ubriacatura” che ha colto il mondo politico italiano dopo l’approvazione - dal Consiglio europeo straordinario del 21 luglio - del cosiddetto Recovery Fund, assolutamente considerando per acquisiti i fondi programmati per l’Italia.

L'Italia dovrebbe contare su 65,456 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto: il 70% delle allocazioni delle risorse, cioè 44,724 miliardi, è riferito agli impegni per progetti 2021-2022, il resto, cioè 20,732 miliardi, è riferito agli impegni relativi al 2023. Nel complesso la “quota” italiana è di circa 209 miliardi ripartiti in 81,4 miliardi in sussidi e 127,4 miliardi in prestiti.

Abbiamo considerato “già in tasca” queste cifre, non solo non considerando che si trattasse di un'enorme estensione del deficit e del debito pubblico (in effetti forse inevitabile), ma anche nascondendoci tutte le difficoltà per l’attuazione del piano europeo.

Il Fondo per la ripresa, ovvero i 750 miliardi che l’Unione europea ha messo sul piatto per rilanciare le economie dei 27 Paesi membri travolte dalla crisi del Covid-19, saranno finanziati emettendo i Recovery Bond, con garanzia nel bilancio dell’Unione europea, quindi il Recovery Fund è legato al bilancio perché l’emissione di bond sul mercato è garantito proprie dalle sue risorse.

Il bilancio deve necessariamente essere approvato all’unanimità dai 27 Stati comunitari e ratificato dai rispettivi parlamenti, ben sapendo che molti di questi Stati sono da sempre contrari alla mutualizzazione del debito e che in definitiva ognuno dei 27 Stati ha facoltà di mettere il veto - perlomeno solo ritardando, nella migliore delle ipotesi – l’approvazione del bilancio comunitario e l’iter del Recovery Fund.

Se questo è l’ostacolo principale da superare, anche le procedure di attuazione sono abbastanza complesse. I governi dovranno inviare alla Commissione europea i Piani di ripresa e di resilienza entro fine aprile 2021. Bruxelles avrà a disposizione fino a 8 settimane per esaminare e proporre al Consiglio Ecofin l’approvazione del Piano. L'Ecofin dovrà approvare quindi il piano a maggioranza qualificata entro 4 settimane. Difficile pensare che questo percorso sia privo di ostacoli.

Altro ostacolo deriva da precisi criteri di utilizzo che la UE pone quale condizionalità all’erogazione dei fondi. Tra i criteri principali, la sostenibilità ambientale (in linea con l’European Green Deal), la produttività, l’equità e la stabilità macroeconomica. La Commissione europea ha inoltre proposto che almeno il 20% degli investimenti provenienti dal Fondo per la Ripresa vada a finanziare la transizione digitale. Pensare di utilizzare le risorse del Recovery Fund per finanziare il reddito di cittadinanza o quota 100 è del tutto velleitario (ma forse bonus monopattini e simili possono trovare alloggio nell’European Green Deal).

L'elenco dei progetti e delle riforme da finanziare deve essere credibile e rispondere a tutte le richieste UE, il calendario deve essere realistico perché se non si rispetta la tabella di marcia i fondi saranno interrotti.

Ma non è solo questo, è notizia di questi giorni che Polonia e Ungheria – a cui si è successivamente aggiunta la Slovenia – hanno preannunciato l’intenzione di mettere il veto all’approvazione del bilancio UE. La clausola che ha fatto andare su tutte le furie i governi di Budapest, Varsavia e Lubiana è il meccanismo, inserito negli accordi con l’Europarlamento sul Recovery Fund, che lega l’utilizzo dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Gravissimo per paesi che da anni godono di generosi finanziamenti comunitari.

Una clausola indiscutibile nelle democrazie liberali ma eccepita da paesi che in nome del “pecunia non olet” hanno rapporti commerciali (e non solo) con paesi quali Cina, Arabia Saudita e Venezuela etc. non certo campioni dello stato di dritto. Ma soprattutto non si capisce cosa ci “azzecchi” con la più grossa crisi economica del dopoguerra causata dalla pandemia.

In merito, oltre che una videoconferenza informale dei leader UE di giovedì 19 novembre, si punta – per affrontare questo ennesimo incubo sul Recovery Fund – sul Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre. Tardissimo rispetto alla tabella di marcia prevista a luglio nel primo accordo sul “Next generation EU”.

Non si comprende come non solo il nostro esecutivo, ma l’intero mondo politico, non abbia neanche abbozzato un piano B, nell’ipotesi che i fondi europei non arrivino o arrivino troppo tardi.