LASCIAR FARE AL CASO NON PRODUCE DI CERTO IgG

Valutazioni basate su indagini di esperti testimoniano come la gran parte delle persone risulti “immune” dalla semplice lettura dei numerosi e spesso inconcludenti emendamenti propinati dalle nostre pubbliche amministrazioni rette da task force piuttosto che a leggi già presenti in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro come l’attuale ma sembra ormai superato Decreto 81.

Forse ci siamo già scordati che la legge 81 contiene le IgG necessarie a fronteggiare il Coronavirus (ormai ben noto nemico da abbattere) ma ci si sofferma nel rimescolare quelle che sono “BUONE PRASSI IGIENICHE” che andrebbero sempre adottate ma mai verificate, lavorando nel limbo della legge, sul filo dell’essere corretto. Presi dalla paura e dalle numerose notizie su cui i consulenti fanno a gara a chi le divulga per primo, ci troviamo nel mare di nessuno; dubbi ai quali non si riesce dare risposta se non la task force di esperti, che, con il “calice in mano” decidono, scrivono, dichiarano su come si dovrà lavorare.

Entrando nello specifico, la valutazione del rischio biologico già annovera il Covid SARS, lontano parente del COVID -19, inserendolo nel gruppo IV degli agenti patogeni con i quali non si deve assolutamente scherzare; forse chi doveva spiegare non ha spiegato che il rischio biologico di comunità c’è sempre stato, forse chi doveva spiegare quali siano le buone prassi igieniche non le ha mai spiegate, forse chi doveva valutare la possibilità di contagio interpersonale negli ambienti di lavoro non le ha mai valutate, o semplicemente la legge non ammette ignoranza, tanto più che l’81 c’è dal 2008.

L’emergenza quindi ha esposto il rischio contagio, il rischio che da comunità è diventato per tutti “professionale”, perché interviene l’INAIL dicendo che se si contrae la malattia negli ambienti di lavoro è infortunio, ritrattando dopo pochi giorni che comunque a seguito di denuncia di contagio, gruppi di esperti avrebbero verificato il “vettore di contagio all’interno dell’ambiente di lavoro”.

Quindi sanifichiamo gli ambienti di lavoro, le scrivanie, le porte, le finestre, le sedie, i monitor perché il nemico invisibile forse ha avuto tempo di occupare clandestinamente la nostra azienda chiusa da mesi, non pensando minimamente al fatto che, se il contagio è interpersonale, forse l’azienda chiusa da mesi svuotata da coloro che la vivevano ne sia priva.

Ma ecco che la task force entra nuovamente in gioco proponendo check list, protocolli anti-contagio, DPI (questi sconosciuti oggetti), parlando di procedure, distanziamento sociale, contingentazione, FFP2, mascherine chirurgiche, aggiungendo infine il concetto nuovo di LAVARSI LE MANI E COPRIRSI LA BOCCA.

Inoltre oggi siamo stati incaricati anche di diagnosticare con relativa sicurezza lo status fisico di un collega, amico, partner, cliente, fornitore chiedendogli solamente informazioni su come stia, se ha sintomi simil influenzali, o semplicemente ricordandogli che se ha una temperatura corporea più alta di 37,5°C meglio che se ne stia a casa e contatti il suo medico curante. Ora non oso pensare a cosa possa succedere verificando la temperatura con termometro digitale ai lavoratori in arrivo in azienda/cantiere/ufficio nei mesi caldi di luglio e agosto, gente che magari si sposta per raggiungere il luogo di lavoro in bicicletta, moto o scooter con 30 °C. Sicuramente anche su questo punto la task force ci illuminerà con una procedura.

Da un punto di vista strettamente professionale, come consulente in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, l’obiettivo principale dovrebbe essere quello di immaginare soluzioni che possano innanzitutto basarsi su dei parametri di ponderatezza, ovvero che vedano come obiettivo primario quello di tutelare la salute dei lavoratori come cittadini e magari renderlo compatibile con le varie necessità di tipo organizzativo e produttive delle aziende. Occorre quindi vedere il rischio in senso bidirezionale, ovvero una sorta di reciprocità tra rischio prettamente esterno dell’azienda e rischio interno, perché nel caso specifico del COVID-19, il rischio proviene dall’esterno e può essere veicolato all’interno creando un habitat favorevole alla proliferazione indiscriminata, soprattutto nelle aziende ad alta densità di lavoratori.

Quindi la valutazione dei rischi aziendali certamente andrebbe rivista anche semplicemente per implementare una procedura ad hoc (e non dettata solamente dai protocolli generici fin oggi divulgati) che metta al primo posto il concetto dell’aver fatto tutto ciò che è opportuno e possibile per adeguare l’organizzazione aziendale e del lavoro al nuovo rischio e ridurre il contagio, quindi incrementare la collaborazione tra datore di lavoro, RSPP, RLS e medico competente al fine di creare la VERA TASK FORCE AZIENDALE.